Alessandro Scarlatti (Palermo, 2 maggio 1660 – Napoli, 24 ottobre 1725) è stato un compositore italiano di musica barocca, particolarmente famoso per le sue opere.
In campo operistico, è considerato uno dei fondatori della grande scuola musicale napoletana.
Nacque a Palermo[1]; secondo altre fonti (l"'Original Catholic Encyclopedia"[2], e l'enciclopedia inglese "Probert Encyclopedia"), invece, nacque a Trapani nel 1659. Lui stesso nella partitura autografa dell'opera "Pompeo" appose la dizione: "Pompeo del Cav. Alessandro Scarlatti di Trapani" [3]
Fu padre di Domenico Scarlatti e di Pietro Filippo Scarlatti, e fratello maggiore di Francesco Scarlatti.
« Alessandro Scarlatti è un grand'uomo, e per essere così buono, riesce cattivo perché le compositioni sue sono difficilissime e cose da stanza, che in teatro non riescono, in primis chi s'intende di contrapunto le stimarà; ma in un'udienza d'un teatro di mille persone, non ve ne sono venti che l'intendono. »
Così, il conte Francesco Maria Zambeccari, acuto indagatore dei costumi musicali ed attento interprete dei gusti del pubblico contemporaneo, individuò per primo (1709) uno dei principali motivi che contribuiranno alla progressiva ed inesorabile scomparsa dal repertorio della quasi totalità della sterminata opera di Alessandro Scarlatti, ossia l'estrema complessità formale che contraddistingue il linguaggio d'un autore votato ad uno stile severo e rigoroso, sostenuto dalla più solida dottrina contrappuntistica, appresa inizialmente a Palermo, e successivamente affinata nella Roma dominata dall'imponente figura di Giacomo Carissimi (1605-1674), compositore presso cui (secondo alcuni studiosi) il giovane Alessandro avrebbe svolto un breve ma intenso periodo di apprendistato nel corso dei primi mesi di soggiorno nella Città Eterna.
Già in quell'epoca il musicista siciliano (che nel 1678 aveva ottenuto l'incarico di Maestro di Cappella presso la Chiesa di S. Giacomo degli Incurabili) si era segnalato per la stupefacente padronanza dei più complessi artifici retorici, che sapeva profondere nelle sue opere non disgiuntamente dalla sublime vena di malinconia che iniziava a velare la freschezza di melodie ancora memori della predominante scuola veneziana e dell'influsso di Alessandro Stradella (1644-1682), protagonista della musica romana che stava per concludere la sua sventurata e romanzesca parabola di uomo e di compositore nella lontana Genova per mano di un anonimo assassino.
Il primo documento che attesti l'attività di Alessandro Scarlatti in veste di compositore risale al 1679, e riguarda l'assegnazione d'un importante incarico – la stesura d'un oratorio – da parte della prestigiosa e potentissima Arciconfraternita del SS. Crocifisso:
« A dì 27 gennaio 1679. E fu resoluto nel modo di tenere circa l'elezione de li M.ri di Cappella che devono fare l'Oratorii nelli cinque venerdì di Quaresima. […] si pensava per parte del Sig. Duca Altemps di valersi del Sig. Foggia, il Sig. Duca D'Acquasparta il Sig. Don Pietro Cesi, il Sig. Duca di Paganica il Scarlattino alias il Siciliano [...] »
La delibera dell'influente associazione mostra senza ombra di dubbio che il diciannovenne "Scarlattino" si era già fatto apprezzare in Roma, dove godeva della protezione di una delle famiglie nobiliari più in vista: il segreto d'un successo così rapido è da ricercarsi probabilmente nella diffusione delle sue prime opere, in cui la vera vocazione del musicista – ossia una particolare attitudine per la scrittura vocale - si evidenziava già con estrema forza. Le cantate stilisticamente attribuibili a questo periodo rivelano un'originale varietà di strutture, spesso memore di stilemi arcaici (arie variate sopra un basso fondamentale – ciaccona - ) che vengono liberamente accostati a procedimenti più "moderni" (come l'aria da capo).
Il tipo di voce utilizzata afferisce quasi sempre al registro sopranile (sarà così per la quasi totalità delle circa settecento cantate a voce sola composte da Scarlatti nel corso della sua carriera). Probabilmente non si tratta di un atteggiamento meramente volto ad assecondare la nobile ed erudita committenza a cui questi veri e propri drammi per musica in miniatura erano destinati, bensì d'uno spontaneo trasporto verso una tipologia vocale particolarmente adeguata ad assecondare le sue proprie esigenze espressive. Il grande successo ottenuto da queste composizioni (di cui in tutto il mondo si conservano numerosissimi esemplari manoscritti a testimonianza della loro diffusione) conferma che l'innegabile complessità della scrittura scarlattiana doveva trovare riscontro in esecutori di sicuro talento ed in uditori di grandissima cultura (quali erano i componenti della nascente Accademia dell'Arcadia, di cui il trapanese sarà eletto membro nel 1706 unitamente a Bernardo Pasquini ed Arcangelo Corelli).
A Roma poi l'oratorio trovava terreno fertile anche per motivi "politici": con l'eccezione di una breve parentesi, coincidente con l'ascesa al Santo Soglio di papa Alessandro VIII, l'attività teatrale a Roma fu soggetta a gravi restrizioni a cavallo tra Seicento e Settecento. Il melodramma vi era di fatto proibito, anche se la nobiltà e le più alte cariche ecclesiastiche erano solite aggirare i divieti pontifici (o ad ignorarli del tutto) facendo rappresentare in forma privata nelle proprie dimore spettacoli operistici per i quali venivano allestiti scenari dai migliori architetti, ed in cui intervenivano i più celebri cantanti, anche dall'estero.
Nel 1703 il papa aveva promulgato un editto che proibiva per cinque anni le attività connesse al festeggiamento del Carnevale (e segnatamente la rappresentazione di melodrammi) per ringraziare la Divina Provvidenza di aver risparmiato l'Urbe da una serie di violenti terremoti che avevano invece colpito gravemente il resto del Lazio. Occorreva quindi sfruttare un sistema "lecito" per godere di una forma di spettacolo il più possibile vicina all'opera: commissionare la composizione di oratorii in lingua volgare.
Questa tipologia aveva assunto, nella sua evoluzione stilistica, un ruolo di succedaneo del dramma per musica, da cui si differenziava ormai solo per ciò che riguardava le fonti d'ispirazione: la storia sacra prendeva il posto della narrazione a sfondo arcadico o mitologico, ed i personaggi comici erano banditi dall'intreccio. Rimanevano invece simili la struttura formale (alternarsi di recitativi arie e duetti, sempre più spesso nella forma da capo) ed il grado di virtuosismo – talora sfrenato - richiesto sia agli interpreti vocali che strumentali. Svincolato dalla solennità conferita dalla lingua latina, anche l'oratorio in lingua italiana poteva così uscire dalle Basiliche, ed essere allestito nei fastosi palazzi della nobiltà.
Un gran numero di commissioni continuavano tuttavia a pervenire ai maestri di cappella da parte delle potenti confraternite oratoriali di San Girolamo e da parte degli influenti protettori della Chiesa Nuova, tra cui figuravano la regina Cristina di Svezia, il cardinale Pietro Ottoboni, il principe Francesco Maria Ruspoli e lo stesso papa Clemente XI. Già nel tardo Seicento Carissimi e Stradella a Roma avevano offerto stupendi esempi di composizioni oratoriali in lingua italiana, il cui vero codificatore fu tuttavia Alessandro Scarlatti, che ne licenziò, nel corso della sua carriera, circa quaranta, in gran parte su richiesta di committenti romani. Il trapanese si dimostrò non solo capace di assecondare i gusti del suo pubblico, ma osò in alcune occasioni adottare soluzioni ardite ed innovative, in piena adesione allo spirito ed all'estetica barocca.
Alessandro Scarlatti
Agli esordi del Settecento, pur non risiedendo stabilmente a Roma, egli era il dominatore incontrastato in un ambiente dove la concorrenza era rappresentata da musicisti del calibro dei fratelli Melani, di Bernardo Pasquini e di Antonio Caldara, e dove perfino cardinali e principi componevano libretti e talora cantate o musica strumentale. Forse Scarlatti inizia inconsapevolmente a scavare un solco tra sé ed il proprio pubblico solo quando intraprende l'avventura di compositore operistico, campo in cui si dimostra geniale innovatore e, sfortunatamente per lui, anticipatore ed organizzatore delle forme che l'opera seria assumerà nel corso del Settecento.
Eppure i suoi primi passi nel mondo del melodramma avvengono sotto i migliori auspici: nell'inverno del 1679 la sua seconda opera, Gli equivoci nel sembiante, ottiene un successo clamoroso, che gli vale l'iniziale interessamento e quindi la protezione della regina Cristina di Svezia (nel libretto della successiva Honestà negli amori si può già regiare del titolo di Maestro di Cappella della sovrana). La fama rapidamente acquisita, la circolazione di alcune sue partiture in tutta Europa ed il conseguente stimolo ad affermarsi come operista lo spingono lontano da Roma e lo portano a Napoli, dove vedono la luce, nel giro di diciotto anni (1684-1702) non meno di trentacinque drammi per musica, un numero impressionante di cantate ed una gran copia di musica sacra e spirituale: a Napoli Scarlatti ha modo ed agio di sperimentare quelli che diverranno, nel giro di pochi anni, i punti fermi del teatro musicale di tutto un continente fino alla rivoluzione mozartiana, ossia l'uso sempre più frequente di recitativo stromentato ed il massiccio utilizzo dell'aria da capo, destinata a prendere il posto d'ogni altro tipo d'aria.
Alcuni importanti storici del Novecento hanno sottolineato l'importanza che le ouverture avanti l'opera ideate da Scarlatti in questi anni rivestirono nel fornire un modello per la prima fase di sviluppo della sinfonia classica (anche se questo giudizio non ha contribuito a squarciare il velo di silenzio che ancora oggi ricopre i numerosi melodrammi custoditi presso le biblioteche di tutto il mondo in attesa di un'auspicabile riscoperta).
Due motivi spinsero Scarlatti a lasciare Napoli nel 1702, ossia quando si trovava al culmine della fama. In primis il suo gusto lo stava portando a fare sempre meno concessioni al pubblico partenopeo (che pure gli tributava enormi successi); la sua musica si dirigeva verso un grado di ricerca formale sempre più avanzata ed il maestro desiderava continuare le proprie sperimentazioni con maggiore libertà. In secondo luogo la situazione finanziaria della sua numerosa famiglia stava peggiorando, poiché gli stipendi che gli spettavano in qualità di Maestro della Reale Cappella non gli venivano corrisposti con regolarità.
Sperando di trovare un impiego fisso e ben remunerato presso il principe Ferdinando de' Medici si trasferisce a Firenze, ma – nonostante il successo riscosso dalla messa in scena di alcuni suoi melodrammi (oggi perduti) – non ottiene alcun incarico. Accetta a quel punto di stabilirsi a Roma (1703), dove viene insignito del titolo di vice maestro di cappella della basilica di Santa Maria Maggiore: in quegli anni vive a stretto contatto con Arcangelo Corelli (con cui collabora assiduamente), ed intensifica la produzione di musica sacra e di cantate, senza peraltro rinunciare a perfezionare il proprio modello ideale di dramma per musica.
È questo il momento in cui Scarlatti si allontana definitivamente dal gusto dell'epoca: la sua musica operistica e vocale in generale si fa sempre più complessa: le sinfonie si arricchiscono nel contrappunto, le arie divengono più estese, e presentano accompagnamenti sempre più raramente affidati al solo basso continuo; il virtuosismo tende a farsi più espressivo, ed agli artisti, più che sfoggio di mere abilità tecniche, vengono richieste vere e proprie adesioni spirituali al testo scritto. Accuse di eccessiva severità nello stile e di pomposità iniziano a giungergli a Venezia, allorché egli vi rappresenta uno dei suoi capolavori, il Mitridate Eupatore (1707).
« Che sia musica soave
spirti rei negar nol ponno
Se negli occhi a chi non l'have –
introduce un dolce sonno. »
È l'inizio dell'incomprensione che accompagnerà il genio di Scarlatti fino alla tomba e che farà sparire le sue opere dal repertorio, con una significativa eccezione: la musica strumentale licenziata da Alessandro Scarlatti occupa una posizione marginale rispetto all'enorme mole della musica vocale, ed è normale per un autore che – come si è visto – mostra una naturale predisposizione nel mettersi al servizio della voce umana.
Ciò che stupisce è che – dimenticata quasi completamente l'opera vocale (sacra, profana ed operistica), l'Ottocento e anche il Novecento si siano dedicati con una certa assiduità solo alla diffusione ed all'esecuzione del repertorio strumentale. Se le composizioni per tastiera, abbastanza numerose e generalmente di alto livello stilistico risentono ancora dell'assurdo paragone con quelle del figlio Domenico e vengono eseguite con spirito "pionieristico", le Dodici Sinfonie di Concerto Grosso sono entrate a far parte stabilmente del bagaglio di molte compagini specializzate nell'esecuzione di musica antica.
Anche questi brani hanno faticato non poco ad affrancarsi dalla patente di corellismo un po' troppo semplicisticamente cucita loro addosso, ma sono infine riusciti ad imporsi in virtù del perfetto dominio del contrappunto (esplicitato nel fantasioso e libero uso di arcaici ritmi di danza) e soprattutto grazie alla bellezza delle melodie, soavemente venate da un sentimento di sottile e sublime malinconia che è il tratto caratteristico ed originale di tutta l'opera di uno dei più alti ingegni del barocco italiano.
Nel 1716, presso il teatro San Bartolomeo di Napoli, vi fu la prima rappresentazione dell'opera seria di Alessandro Scarlatti "Carlo re d'Alemagna", Negli intervalli dell'opera vennero inoltre rappresentati i tre intermezzi tra Palandrana vecchia vedova e Zamberlucco giovine da bravo, anch'essi musicati da Scarlatti. La partitura di questi intermezzi è rimasta inedita fino al 2013, archiviata nella Biblioteca Universitaria di Bologna (MS Musicale 646 Vol V CC 171-197) ove giunse nel 1749 per donazione testamentaria del conte Francesco Maria Zambeccari. Nell'aprile 2013 il gruppo editoriale Viator ne ha dato stampa con un'edizione critica curata da Sandro Volta e da Marco Bellussi il quale ne ha anche diretto la prima esecuzione scenica in tempi moderni presso il teatro comunale di Panicale.
Nella Stagione del Carnevale del 1718, Alessandro Scarlatti rappresentò nel Teatro Capranica di Roma un importante Dramma per Musica Telemaco, su libretto di Carlo Sigismondo Capeci, dedicato al Conte di Gallas, ambasciatore dell'Imperatore d'Austria presso la Santa Sede. Nel ruolo del protagonista, "Telemaco", Scarlatti fece esibire Domenico Gizzi (1687-1758), illustre musico soprano della Real Cappella di Napoli.
A Napoli Scarlatti conduce gli ultimi anni della sua vita, stimato e venerato ma ormai fatalmente ai margini della vita culturale. Il plauso dei maggiori teorici e dei più apprezzati musicisti contemporanei (tra cui Georg Friedrich Haendel, Johann Adolph Hasse, ed il severissimo Johann Joachim Quantz) incoraggia il compositore a proseguire nella sua raffinata ricerca formale, che culmina in due capolavori della maturità, Il trionfo dell'onore (1718) e Griselda (1721), partiture ancora una volta di incantevole fattura che incontrarono all'epoca i gusti del pubblico (soprattutto la prima, replicata per ben diciotto volte) senza tuttavia riuscire ad imporsi successivamente in repertorio. Sempre nel 1721 avviene la prima assoluta della cantata La gloria di primavera con Margherita Durastanti al Her Majesty's Theatre di Londra.
La morte lo coglie all'ombra del Vesuvio, nel 1725, dove si era ritirato da qualche anno rinunciando quasi totalmente alla composizione: una nuova generazione di musicisti lo aveva già sostituito nel cuore dei frequentatori dei teatri partenopei, ma questa nuova generazione era stata formata nel gusto - e nello spirito – da uno dei più ferventi ammiratori della solenne magniloquenza dello stile scarlattiano, Francesco Durante (1684–1755). Attraverso l'insegnamento di questo superbo didatta l'ammirazione per il musicista palermitano si mantenne viva e riconoscibile nello stile di Pergolesi, Duni, Traetta, Sacchini, Paisiello, Piccinni, Ciampi e Jommelli, diffondendosi trionfalmente in tutto il mondo col nome di opera napoletana.
Fonte: Wikipedia